martedì 23 febbraio 2016

Il nome di Umberto Eco

Questa era la copertina!
Ora che tutti hanno smesso di parlare di Umberto Eco, volevo azzardare a dire qualcosina io.
Ma a modo mio, cioè raccontandovi di me e lui, di come l'ho incontrato (letterariamente parlando), di quello che mi ha lasciato.
Premetto una cosa: quando dico che un autore "mi lascia qualcosa" non voglio dire che senza di lui non avrei conosciuto un aspetto della realtà, ma che grazie a lui ho trovato in me un modo per leggere la realtà.
Sono arrivato tardi al libro che ha reso famoso al grande pubblico Eco, quello che lui riteneva il suo peggiore: "Il nome della rosa".
Conoscevo l'autore perché mi capitava di leggere le sue bustine di Minerva su L'espresso, ma niente di più. Diciamo che mi stava simpatico, mi piaceva quel suo scrivere fluido ma contemporaneamente denso, che faceva capire per bene tutto quello che voleva dire. O almeno così a me sembrava.
Avevo anche sentito parlare del suo libro e del film che qualche anno dopo ne era stato tratto, quello con Sean Connery e Christian Slater (il nome di quest'ultimo l'ho trovato su Wiki, altrimenti... ). Ci sarebbe la questione che il film non è tratto da libro, ma dal palinsesto del libro, ma la cosa mi porterebbe lontano.
Il libro in mano comunque non l'avevo mai avuto materialmente.
La storia inizia una mattina di un lunedì fuori dalla stazione Termini di Roma, diciamo che siamo nei primissimi anni '90. A quel tempo andavo a Roma ogni 15 giorni per questioni di studio: arrivavo il lunedì mattina, al pomeriggio facevo lezione e ripartivo al pomeriggio del martedì.
Non so se ci sono ancora (manco da Roma da più di 20 anni), ma allora in piazza Esedra, se non ricordo male il nome, era pieno di bancarelle che vendevano di tutto, anche libri usati.
Questo era il benvenuto che Roma mi dava: mi faceva perdere in centinaia di titoli, di copertine colorate, di autori sconosciuti da scoprire; un sogno! Ah, poi c'era i piccioni, ma questa sarebbe un'altra storia...
Quella mattina scendo da pulmann con cui ero arrivato dalla Calabria e comincio a gironzolare per i banchi. Avevo già preso un librettino di non ricordo cosa né di chi e stavo per abbandonare la ricerca, perché facevo conto che quella lettura mi avrebbe tenuto occupato fino al rientro in Calabria.
Ma... ecco che all'improvviso mi ritrovo in mano questo volumetto color senape in edizione economica della Bompiani. Sapete che io sono un feticista dell'odore della carta e questa è la cosa che mi ha subito colpito: il colore, l'odore, la compattezza del numero di pagine. Era perfetto da tenere in mano camminando e leggendo.
Insomma lo comprai.
Non ricordo qual'era il suo prezzo, ma tenendo conto delle mie finanze di allora non doveva superare le 500 lire o giù di lì, altrimenti l'affare non si sarebbe fatto.
Normalmente andavo subito a prendere la camera in albergo e poi facevo un giro per far passare la mattinata.
Ma quella mattina accadde qualcosa. Appena lasciata la bancarella aprii il libro e cominciai a leggere qualche riga dell'inizio. Mi potrete anche dire che tutto ciò che segue è un racconto romanzato, che certe cose succedono solo nei film; dite quel che volete, ma è la verità.
Trovai la prima panchina libera e sedetti, sempre leggendo. E più leggevo più mi sembrava di aver sempre letto quella storia. Mi sembrava di conoscere ogni personaggio, anche quelli appena incontrati. Poiché lo stomaco brontolava (avevo fatto una specie di colazione in un area di servizio durante il viaggio verso le sei di mattina) decisi di mettere qualcosa sotto i denti e presi quel che trovai di buono da una bancarella di alimentari nelle vicinanze.
Era una bellissima giornata, e tutto spingeva a non chiudermi in una stanza d'albergo.
Così decisi...
Alt! Mi rendo conto che la narrazione si sta facendo troppo lunga per un post solo; si rischierebbe di far calare l'attenzione.
Perciò io mi fermerei, per il momento, qui.
Alla seconda parte!

Il diarista Oste Juan
   

sabato 20 febbraio 2016

Insieme (a Myrtilla) raccontiamo... "Il mandala"

Non so bene come si fa a partecipare a questa cosa del blog di Myrtilla.
Ho capito che funziona così: lei scrive un Incipit e poi chi vuole ne scrive il seguito, con un massimo di 2-300 parole o caratteri.
Io ho deciso che volevo e ho scelto le 300 (circa) parole, che restare nei 300 caratteri, per la mia logorrea, mi avrebbero portato a strozzarmi sul nascere.
Eccovi, allora, l'incipit di Myrtilla e il mio finale de 
 

 IL MANDALA
 
Il corpo nudo della donna disteso sul fianco aveva un che di virginale. Una tela intonsa pareva. Invitava a... ma come l'avrebbe presa lui? Offendersi? Adirarsi?
Prese il suo pennello più fine e le si avvicinò. Con dolcezza cominciò dal centro della schiena. Un mandala. Avrebbe disegnato un mandala


Una spirale cominciò ad avvolgersi dal punto di partenza e i colori si susseguivano ai colori.
Enrico intingeva il pennello e poi toccava il corpo nudo. Pian piano i segni divenivano sempre più pieni, più possenti, quasi fossero stoccate di una spada immaginaria. Persino i colori acquistavano violenza, quasi da far male agli occhi.
E, dipingendo, ripensava ai suoi ‘no’, ai suoi ‘non fino a questo punto’, che l’avevano lasciato spossato come un corridore che da’ tutto senza raggiungere mai la meta.
Per Linda ogni cosa era un gioco, ed Enrico questo non lo poteva accettare: nel suo mondo, il padrone deve possedere tutto quello che lo circonda; anche Linda che era sempre lì, a portata di mano.
Ad ogni tratto della spirale cresceva in lui la furia, gli s’accecava viepiù la mente, ed ogni ‘no’ passato diventava una pennellata ancor più piena.
I cerchi avevano raggiunto le scapole e poi le braccia: non c’era più posto per dipingere; ogni parte di quel corpo era stata (finalmente) conquistata, sottomessa, in un mandala di luce esplosiva.
Enrico si alzò e guardò: non i fianchi nudi, non i seni che occhieggiavano da sotto il corpo, non i capelli ramati o le mani affusolate che tante volte si erano rifiutate di dargli il giusto.
Egli guardava l’opera sua, conclusa. La sua mano s'era finalmente impadronita di quel corpo e non restava che fissarlo in eterno.
Sfilò lo stiletto dalla sacca dei colori e delicatamente la penetrò, proprio al centro del mandala, da dove tutto era partito.