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Luvino al tramonto |
Aprii
gli occhi.
C’era
qualcosa che mi dava fastidio sotto la gamba.
Allungai
la mano e trovai un ciuffetto d’aghi di pino che si era insinuato sotto il
saio.
Lo
presi e lo gettai via.
Gli
altri ancora dormivano sparsi sotto gli alberi del boschetto, e il cielo si
stava arrossando un po’ oltre le montagne. L’acqua del lago era immobile e
scura; mi dava sicurezza.
Ringraziai
Nostro Signore Gesù Cristo per essere morto e risorto per la nostra salvezza e
recitai un pater, ave e gloria.
Fate
Francesco dice che non dobbiamo recitare queste preghiere per abitudine ma perché
sappiamo quello che stiamo dicendo e ne siamo convinti.
Ma
anche la coscienza vuole la sua parte e io le ho sempre recitate appena alzato
e prima di addormentarmi.
Mi
crogiolavo ancora nel ricordo del sogno appena fatto.
Ero
sulle rive del lago, a pochi passi da casa mia e giocavo a fare rimbalzare i ciottoli
sull’acqua.
Ogni
volta che la vita di fraternità (come la chiama Francesco) si fa pesante io
scappo con la mente a quell’acqua, al tepore del sole in primavera, al
luccichio abbagliante d’estate.
Poi,
nel sogno, guidavo una di quelle chiatte di legno che vanno da una riva
all’altra del lago a portare persone e animali.
Quante
volte da bambino ho immaginato di farlo! Mi vedevo con un lungo ramo in mano a
far muovere la chiatta, a spingere con forza mentre scambiavo chiacchiere col
pastore che trasportava due pecore o col contadino che teneva stretta a se’ una
sacca piena di verdura odorosa.
Mi
girai per un rumore poco dietro di me: qualcuno si era alzato e si era
allontanato dietro gli alberi; evidentemente doveva vuotare la vescica.
Quando
il rumore che mi ero aspettato terminò, comparve frate Filippo; venne in riva
al lago e sedette vicino a me.
“Già
sveglio, fratello?” mi chiese.
“Si,
voglio godere il più possibile dell’aria di casa mia, del mio lago. È quasi un
rifugio per me… “
“Ti
capisco, fra Dulbino. Anche a me manca la mia città quando siamo lontani: le
colline dolci e profumate, gli ulivi argentati… immagino come dev’essere per te
che ci vieni così poco spesso! Ma io, grazie a Dio, sono quasi sempre a casa,
specie da quando frate Francesco mi ha affidato le sorelle povere di Chiara.”
Frate
Francesco, infatti, aveva nominato Filippo visitatore del monastero di San
Damiano, dove Chiara e le sue consorelle risiedevano. E poiché egli aveva una
tal dolcezza e maestria nel parlare di Dio e nello spiegare le Scritture pur
senza averle mai studiate, gli aveva dato anche l’incarico di predicatore
presso di loro.
“Sì,
è così, hai ragione. Ma dov’è Francesco? L’hai visto?”
“Iersera
si era disteso vicino frate Egidio, visto che nessun altro sopporta il suo
russare. Ma poi stamane non l’ho visto. Sai quanto lui dorma poco di notte e di
come la passi a pregare.”
“Ti
posso fare una domanda, fra Filippo?”
“Certamente,
Dulbino!”
“Vieni,
camminiamo lungo la riva, non voglio svegliare i fratelli e… non voglio che
sentano i nostri discorsi.”
Anche
se faceva freddo a quell’ora dell’alba, perché il sole non era ancora penetrato
nella vallata, camminavo coi piedi nell’acqua. Vedevo la mia Luvino ancora
addormentata, ma già qualche rumore
cominciava a sentirsi.
“Ma
tu che lo conosci sin dall’inizio, che idea ti sei fatto di frate Francesco?”
chiesi.
Frate
Filippo dapprima sembrò stranito dalla mia domanda, poi fece qualche smorfia
come se stesse rimuginando.
“Sai,
anch’io me lo sono chiesto diverse volte, e non ho mai saputo rispondere.”
Frate
Filippo si fermò, ed io con lui.
“A
volte mi sembra di avere davanti un santo o un angelo per quel che dice e fa e
un minuto dopo lo vedi correre come un pazzo in un campo o gettarsi addosso ad
un lebbroso per proteggerlo dal freddo. Altre volte gli senti dire certe parole
che qualsiasi sacerdote prenderebbe come eresie, come quando ha detto che Dio
non vuole che le nostre sorelle stiano chiuse in clausura, ma che anche loro
dovrebbero andarsene libere per il mondo come noi maschi ad annunziare che Gesù
è morto e risorto per tutti.”
“Hai
ragione, frate Filippo! Anch’io ho pensato la stessa cosa. Mi ricordo di quella
volta che salì sul tetto di quella casetta che i frati si erano costruiti per
avere un riparo, e lo distrusse urlando che sorella povertà non lo voleva. E
poi alla sera li ammaestrò dolcemente sull’amore fraterno.”
Riprendemmo
a camminare.
A
qualche passo da noi un ragazzo era fermo sulla riva. Ci vide arrivare e si
volse a guardarci.
Lo
conoscevo di vista: quando ero andato via per seguire Francesco era ancora
quasi un bambino e giocava col mio fratellino a lanciarsi in acqua dai rami del
grosso salice che c’è davanti alla chiesa.
“Pace
a te, fratello!” disse Filippo.
Gervasio,
ricordavo ora il suo nome, alzò una mano a salutare, ma non aprì bocca.
“Sei
Gervasio, vero? Io sono Dulbino, il fratello di Giovanni, con cui giocavi da
piccolo.”
“Ah,
Giovanni, certo! E tu sei Dulbino , sì, sì… mi ricordo. Dov’è ora tuo fratello?
Non lo vedo da quando partì con tuo padre e tua madre.”
“Non
lo so, Gervasio. Nessuno ha saputo dirmi niente. Quando sono tornato qui la
volta scorsa non c’erano già più; mi hanno detto che sono andati oltre le montagne,
di la’” risposi, facendo segno a nord.
“Tua
madre ha sofferto molto quando sei andato via, Dulbino, anche se non ti ha mai
detto niente. Vi chiamano “i pazzi”, sapete, perché andate dietro a quello che
sembra un pazzo.”
Io
e frate Filippo ci guardammo quasi con imbarazzo, anche se di imbarazzante non
c’era niente. Ma vallo a spiegare a chi non sa come viviamo e cosa facciamo.
“Eh…
“ dissi, “le mamme sono apprensive, hanno paura di tutto e vorrebbero sempre
che il proprio figlio crescesse sotto le loro gonne. Ma io ho trovato la mia
vita insieme a loro: gioia nel Signore, semplicità di vita, fraternità.”
“…
e camminare scalzi e morire di fame e di freddo” rispose Gervasio indicando il
nostro vestire.
“Non
si può avere sempre tutto ciò che si vuole, perché non tutto è veramente buono
per noi e la nostra anima!”
Udimmo
queste parole venire da dietro di noi e ci voltammo.
Francesco
stava arrivando di corsa da mezzo al boschetto.
“Pace,
fratelli!” esclamò ansando e risistemando il saio che era andato un po’ per i
fatti suoi.
“Francesco!”
disse fra Filippo. “Dov’eri?”
“Avevo
una missione da compiere stanotte, di quelle che richiedono che ci sia solo
io.”
“Lui
è Francesco” dissi rivolto a Gervasio. “È il nostro fratello maggiore, il pazzo
per il quale sono diventato anch’io pazzo” ammiccai.
“Cos’è
questa cosa del pazzo?” chiese Francesco divertito.
“È
che non mi sembra normale quello che fate, e non solo a me.”
“Ed
è solo per questo che la gente pensa che siamo pazzi?” ribatté Francesco.
“Beh,
non mi sembra normale col freddo e il gelo andare in giro così poco vestiti,
qualcuno anche scalzo, dormire all’aperto senza avere una casa.”
“Tu
che mestiere fai” chiese Francesco a Gervasio.
“Intreccio
cestini in vimini, riparo qualcosa che si rompe, cose così insomma.”
“E
per fare questo hai bisogno di un posto dove stare, dove la gente ti può venire
a cercare. Hai bisogno di una casa dove ripararti e dormire, vero?”
“Certamente!”
“Noi,
invece, per fare il nostro ‘mestiere’ abbiamo bisogno di… non aver bisogno di
niente! Anzi, ogni cosa che possediamo ci distrae da quello che abbiamo scelto
di fare. Il nostro mestiere è andare dalla gente e dire loro: ‘sei figlio di
Dio! Rialzati e cammina a testa alta, rendi onore al Padre tuo che è nei Cieli!’”
“E
come fate per le cose che vi servono: mangiare, vestirvi, dormire?”
“Abbiamo
tanti servitori che neanche te li immagini!”
Io
e frate Filippo a questo punto guardammo Francesco con aria interrogativa. Lui
allora si girò verso di noi e disse:
“Non
vedete anche voi ogni volta uno stuolo di angeli mandati da nostro Padre ad accompagnare
chi ci porta un tozzo di pane, un po’ di stoffa per farci un saio, una coperta
per qualche fratello ammalato e infreddolito?”
Poi
si volse nuovamente verso Gervasio e abbracciando con le mani il cielo e la
terra disse:
“Vedi
fratello, abbiamo tanti di quei servitori che nemmeno il papa o l’imperatore di
Germania!”
“Ma
come… “ provai a dire, ma non trovai altre parole, non capivo.
“Tu,
Dulbino, fratello mio carissimo e amato, devi smettere di guardare con gli
occhi del corpo e imparare a usare quelli dell’anima!”
Gervasio
sembrò colpito da una frustata e si irrigidì, aggrottando le ciglia. Poi chiese
rivolto a Francesco:
“E
cosa vuol dire questo?”
Francesco
gli si avvicinò e mise una mano sulla sua spalla; quindi prese a camminare con
lui sulla riva.
E
cominciò a dire:
“Vieni,
fratello Gervasio, ti racconto una storia… .”
Poi
la voce divenne un sussurro e tre paia di orme calcarono i ciottoli, allontanandosi.
L'oste Juan
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N.B.: Luvino è il nome di Luino al tempo di Dulbino e Francesco, intorno al 1200. Questo racconto fa parte della saga di fra Dulbino, fraticello (inventato) del primo gruppo di compagni di Francesco d'Assisi. Gli altri racconti li trovate qui, nel vecchio blog.
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