venerdì 10 luglio 2015

Il cristomorto del Venerdì Santo



Aprendo vecchie cartelle e file dimenticati, trovo sempre pezzi della mia vita antica.
Antica e non vecchia, perché l'antico è finito in sé, perfetto, concluso; il vecchio è sorpassato, modificato, in fondo ormai inesistente.
Quello che segue è il primo capitolo di un racconto mai terminato di tantissimi anni fa, mi sembra fosse il '90-'92, ma che a rileggerlo ora potrebbe essere inserito benissimo in quel lavoro di autobiografia narrata che ho in testa da un po' e per cui, in fondo, ho aperto questo nuovo blog.
Ho ritrovato in queste righe un pezzo della mia Calabria, quasi un racconto delle sue radici profonde, quelle contadine, che continuano a vivere anche in questi tempi di internet, paytv e simili.
Ve le propongo così come sono, senza ritocchi. Probabilmente chi non conosce la Calabria faticherà a capire alcune cose, alcune situazioni, ma spiegare con una nota a fondo pagina avrebbe significato tradire la mia memoria e quella della mia gente.
Buona lettura!


Molti anni prima, era un tempo che minacciava pioggia.
La lunga processione, dietro la statua del cristomorto, quella del Venerdì Santo, non sembrava interessata a quello che attorno a lei accadeva. Ognuno col suo grande, irresolubile problema che nessun politico o prete poteva capire. Ognuno colla propria vacca che fa poco latte o il figlio handicappato che spacca tutto quando fuori gli ridono dietro e lo rincorrono e prendono a pietre.
Solo lui, il cristomorto del Venerdì Santo si potrebbe impietosire (perché si tratta sempre di avere pietà, mai di giustizia) se l'offerta al prete sarà adeguata, se la statua calerà perfettamente nella fossa scavata religiosamente, senza urtare ai bordi, se...
La lunga processione, silenziosa, camminava tra gli alberi d'arancio, ormai vuoti, cintati di filo spinato. In testa le sottane nere del parroco e dei chierichetti; dietro, dopo la varetta della statua, quelle delle donne. In fondo, perché tutti facessero finta di non vederli, gli uomini, duri e bruni di sole.
Giunsero nel luogo stabilito e tutto si fermò come ad un comando segreto. I portatori della varetta (quegli unici uomini che potevano ufficialmente essere presenti, anzi dovevano), vestiti di un lungo saio nero, avanzarono sino alla grande buca, qualcuno scese dentro con un salto, gli altri cominciarono ad imbracare di grosse funi la statua. Poi, agli ordini di un anziano con un gran mantello bianco sull'abito dei portatori, fecero scendere lentamente il cristomorto nella fossa. A quel punto tutti si fecero ai bordi e cominciarono, ordinatamente a turno, a lanciare monete e banconote sulla statua. Chi già aveva offerto si faceva da parte e altri arrivavano. Durò tutto una decina di minuti, nel più assoluto silenzio, che si poteva sentire la segheria lontana dopo il bosco.
Enrico domandò sottovoce al prete: "Non dici niente, una preghiera, qualcosa?"
Rispose don Lillo: "No, no, niente, che è qua che ci guadagno qualcosa, senno' addio."
Capì che il silenzio faceva parte del rito, perché tutto avvenisse nel modo tramandato per generazioni, quello che solo fa riuscire ogni desiderio della gente.
Enrico non avrebbe riso più di quella risposta dopo qualche anno, quando avrebbe capito il senso della vita di quella gente.
Anche quell'anno nessuna vacca fece più latte del solito e nessun figlio deforme guarì miracolosamente, ma ogni Venerdì Santo poteva essere quello buono e ci poteva essere un po' di pietà per qualcuno.
Aveva visto, Enrico, arrivare in paese qualche politico, grande o piccolo, importante o aspirante tale; nessuno però meritava il rispetto per il cristomorto del Venerdì Santo, forse perché il cristomorto era persona troppo seria per aprire bocca a promettere qualcosa se non quello sentito alla domenica a Messa e ripetuto dal parroco durante le prediche.
In questa terra di cui è impossibile raccontare storie liete o normali perché un dio o uomini più potenti di un dio hanno così stabilito, ogni paese ha il suo cristomorto del Venerdì Santo; in ogni paese il tempo si ferma al Venerdì Santo senza arrivare mai alla Domenica di Pasqua.
Così come ogni paese ha il suo onorevole o amico d'onorevole, simboli borbonici o papalini sopravvissuti, loro sì, a terremoti, pestilenze e governi. Ci furono anche liberatori che passarono da lì durante le guerre di tutti i tempi, ma solo perché era l'unica strada per arrivare a Roma.
Ma qui ogni viso nuovo potrebbe essere quello di chi libera dal predecessore, anche se tutti sanno che in fondo solo il cristomorto del Venerdì Santo è quello che aiuta davvero, forse perché anche lui è morto inseguendo un sogno di libertà.
Chi, meglio di uno che ha sofferto come loro?
Qui, dove tutto è nero e di pietra, le donne sposate e le madonne (solo le notti sono di stelle e di luna splendente), qui dove il mare è così cattivo che obbedisce e si fa attraversare solo dai santi, qui continuano a nascere uomini e a morire bestie.

4 commenti:

  1. Molto molto suggestivo.
    Quindi presumo (in effetti non te l'ho mai chiesto anche se ormai corrispondiamo da parecchi anni) che tu hai vissuto da ragazzo non in qualche capoluogo ma nella Calabria rurale, o quanto meno avevi dei parenti in quelle zone nelle quali magari trascorrevi i periodi di festa (come d'altronde capitava anche a me, quando ero piccolo io le Seychelles e i villaggi vacanze erano ancora "in divenire" ;-)

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    1. in verià sono nato in un grosso centro capoluogo e ho vissuto per vent'anni in una cittadina (attualmente capoluogo) sopra i 60mila abitanti. Ma mi sono sempre interessato della vita rurale, un po' per curiosità, un po' perché penso che in calabria non esistano realtà 'cittadine' né tantomeno metropolitane e anche i posti con più di 100mila abitanti siano dei paesi molto cresciuti. Dall'antropologia ho imparato la voglia di andare alle radici e queste vengono, per tutti, dalla campagna. Quando facevo il liceo classico avevo (ora non c'è più... ) un mio 'dizionario greco-calabrese', almeno per quei dialetti specie reggini che sono ancora oggi uguali al greco antico. Infatti molti paesini dell'aspromonte parlano un dialetto identico a quella lingua classica. ma avevo anche appunti delle corrispondenze tra il francesce e i dialetti della zona del vibonese. Poi crescendo purtroppo per tutti questi hobbies non ho avuto più tempo. Ma ora che sto invecchiando mi torna la nostalgia per la storia, le lingue antiche, l'antropologia. Le mie vacanze estive, poi, erano in parte marine (vivevo in un centro bagnato da mare) e in parte montane perché avevamo una casa in Sila, immersa nel verde. Non mi ci fare ripensare...

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  2. Davvero affascinante, il contenuto ma anche lo stile della prosa. Secondo me merita un seguito...

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    1. Grazie! un seguito veramente non c'è; c'erano un paio di capitoletti, ma sono scritti veramente da schifo, con una storia melensa e senza senso, in stile esistenzialista della peggiore specie, una specie di spremuta ristretta de La Nausea di Sartre. Penso che rimarrà così.

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